La Sardegna spiegata a un collega

La Sardegna. Sai, è quell’isola molto grande dell’Italia.

“Sizilien?”.

Nein, non Sizilien, Sardinien, l’altra isola, quella che sta sotto la Corsica, la forma ricorda vagamente un’orma.
Annuisce come se avesse perfettamente capito di cosa stiamo parlando. Ma certo, la Sardegna, c’è bisogno di puntualizzarlo? Credo però che la Sicilia abbia molta più cultura, no? Universo donami la pazienza, l’unione con il tutto, la forza di non urlare.

Di momenti imbarazzanti così ne ho vissuto già un paio nel corso degli anni.

Digressione – Parigi.

Ricordo che a Parigi un tipo mi guardava come se fossi la classica egocentrica in cerca di attenzioni: eravamo nel piano interrato dell’International, vicino a Place de la Republique, musica a palla e luci bassissime. Probabilmente quello voleva solo flirtare un po’: eravamo d’altronde un gruppetto di giovanissime ragazze italiane lontane da casa e aveva tutto il diritto di fare lo splendido con noi.

Mai nella vita si sarebbe immaginato di discorrere da lì a poco di vitali questioni geografiche. Ma mica ho chiesto io, da dove vieni? Mica ho scelto io di nascere su un’isola di cui non hai mai sentito parlare. Ma sono io quella che deve darti una lezione.

Roma? No, Sardegna. Venezia? No, Sardegna. Firenze allora!

Insomma, la Sardegna non la conosceva, niente da fare. Continuava a sciorinare piuttosto convinto la lista delle cinque città italiane rimastegli impresse dalle elementari, sperando di fare colpo o forse solo di mettere fine a quel supplizio. Napoli? Sì, Napoli. Alla fine ha vinto lui.

Che sofferenza per il mio giovane cuore. Che vergogna.

In Irlanda una conversazione simile ha preso addirittura una piaga – se possibile – peggiore. Non solo l’interlocutore non aveva mai sentito parlare di noi, ma nemmeno gli interessava approfondire.

Fine della digressione.

Il collega continua a fissarmi. Credo di essere stata appena impossessata dal demone ancestrale che si appropria delle anime dei sardi che parlano della Sardegna ai non sardi. Sembra un ragionamento contorto, ma è un sentimento abbastanza diffuso, soprattutto quando ci troviamo all’estero.

Ci siamo Noi, e poi ci sono tutti gli altri. E Noi siamo quelli una spanna sopra tutti, quelli che non fanno le vacanze d’estate perché  sono le vacanze a venire da noi, quelli che noi i Caraibi ce li abbiamo in casa. Quando ci feriscono con uscite tra l’assurdo e il maleducato, quando qualcuno afferma di non sapere cosa sia la Sardegna, non possiamo fare altro che mettere in moto anni e anni di addestramento all’orgoglio campanilistico e attaccare.

Nessun terrone d’Italia può sperare di battere un sardo in quanto ad affermazioni morbose sull’incredibile fortuna di essere nati sull’Isola. In quei momenti è come se a parlare non fossimo direttamente noi, ma quel chip ultra sofisticato che ci hanno impiantato in testa ancor prima della nascita. Anche allora eravamo pervasi di spocchia sarda, ma non eravamo pienamente consapevoli del suo utilizzo.

Trascino il collega fino alla mia postazione, apro la home page di Google e digito: Alghero. Introduco allo sventurato, dapprima a voce, i tratti salienti della città, a cominciare dalle mura antiche, passando per il centro storico e concludendo poi con una banalissima foto del Porticciolo. Trasmetto a parole l’aroma del corbezzolo avvolgente in un caldissimo pomeriggio d’agosto, il fruscio dei capelli smossi al vento.

Faccio attenzione a non svelare le immagini prima del tempo per non perdere l’attenzione dello studentello, e quando giro lo schermo, mi sembra piacevolmente colpito. Wow, ma tu vivi qui? Sfodero l’asso nella manica. No veramente, è qui che abitavo. Salto con una certa indifferenza a una foto del mio cellulare scattata al Lido.

Non è la spiaggia più bella del mondo, ma un tedesco che ne sa? Faccio spallucce, e ammetto con repulsione, che quello è il mare dell’infanzia, niente di speciale se non per i ricordi raccolti negli anni, dai panini imbottiti divorati sull’asciugamano con miei cugini, alla ricerca ossessiva di occhi di Santa Lucia sulla riva.

È giunto il momento di rincarare la dose anche se quello vorrebbe, che so, lavorare.  Mostro paesaggi cristallini e incontaminati: Stintino, La Maddalena, Cala Goloritzè. Mi guarda sbalordito e, come tutti i sacrosanti non sardi, mi pone la domanda che un sardo si sente fare ogni santa volta: ma perché sei venuta qui? Lo dicono con quel misto di stupore e shock che ti viene il sangue amaro mentre pensi che se fosse dipeso dal paesaggio, non saresti stato così scemo da andartene. Rispondo come sempre, ammettendo di non avere la più pallida idea del perché mi trovi lì.

Ma l’idea ce l’ho eccome.

Digressione 2 – vecchi ricordi.

Indietreggio coi ricordi mentre il collega continua a sfogliare la galleria di Google immagini. Mi ritrovo seduta alla scrivania di casa, il computer acceso, le celle di un file Excel riempite da nomi di agenzie, aziende, negozi. Sarà la centesima mail che mando e la centesima risposta di silenzio che ricevo. Sono appena tornata dall’Irlanda, e punto tutto sull’inglese fresco di full immersion coatta.

Dopo tanto brancolare nel buio ricevo il primo invito a un colloquio. Si tratta di un mega evento internazionale, e servono persone che comunichino in lingue straniere con i partecipanti alla manifestazione. Vado a Sassari bella carica per il primo incontro: pura formalità. Si tratta di una prima fase conoscitiva con gli operatori dell’agenzia interinale che si occupa della selezione dei candidati, e a meno di non trovarsi di fronte serial killer o persone con evidenti patologie schizoidi, i recruiter tendono a essere abbastanza elastici.

Perciò passo senza grossi problemi allo step successivo, la conversazione in inglese. Stavolta si farà tutto telefonicamente, perciò attendo la chiamata all’ora e al giorno stabiliti, dopo ore di rincoglionimento massivo davanti a film in lingua originale, canzoni cantate a squarciagola e letture scandite con il miglior accento belfastiano che mi riesca.

Squilla il telefono e mi sale il cuore in gola. Sono una maledetta perfezionista e soffro di ansia da prestazione cronica. Le ragazze al telefono sono due, in viva-voce, chiamano da Cagliari e sono carinissime. Mi mettono subito a mio agio e rompono il ghiaccio facendomi delle domande generali come chi sono, cosa faccio, com’è il tempo ad Alghero e via dicendo. Dopo le chiacchiere di circostanza passiamo al motivo vero e proprio della telefonata.

Comincia il colloquio in inglese: parliamo dell’esperienza in Irlanda, poi di Londra, che lavoro facevo lì, quali erano le mie mansioni. Dall’altra parte un silenzio sospetto. Ok le sto annoiando.
Dopo tanto parlare giunge timidamente una voce dall’altro capo della linea. Scusa dicevi? Sì, ho lavorato durante i saldi natalizi in un negozio sulla Oxford Street, un delirio, c’era la fila dall’alba per accaparrarsi… “No aspetta, non ho capito cosa intendi. What do you mean?“. Ehm, no nulla, dicevo dei saldi. “I cosa?”. I saldi, sales. “Ah, scusa. Non conoscevo questa parola. Mi sa che il colloquio in inglese potresti farlo tu a noi”. E ridono. L’intervista telefonica non è proseguita per molto.

La terza e ultima fase della selezione consisteva nel parlare direttamente con uno degli organizzatori dell’evento, un bel signore che sapeva il fatto suo. La chiacchierata va alla grande, ma casco proprio sull’ultima questione spinosa, quella per cui dopo mi sono arrovellata il fegato chiedendomi quale colpa regressa io debba espiare in questa vita, in quale intricato complotto mondiale sia finita per l’amordiddio! “Lei parla tedesco?”.

E con la seguente questione, è calato il sipario sulla mia breve e fallimentare carriera lavorativa sarda. Quella per cui quando ti fai un mazzo tanto per imparare una competenza nuova, serviva quell’altra, quando ricevi una mail di risposta in seguito a una candidatura spontanea, cercano di imbragarti in progetti inesistenti, da creare da zero – indovina un po’? – gratis.

Quindi capiranno anche i meno dotati che, se fosse stato per le spiagge bianche, per lo iodio che ti impiastriccia i capelli, per i Malloreddus con sugo di cinghiale, di certo in pochi partirebbero. Ed è triste che non tutte le persone nel mondo conoscano la Sardegna, ma non c’è pericolo.

Considerato l’esodo dissanguante a cui sono costretti i nostri corregionali ogni anno, sarà più facile diffondere il verbo della nostra terra perfetta. Se orde di turisti decidessero infine di venire a trovarci, potrebbe non esserci rimasto più nessuno ad accoglierli, ma la soddisfazione di decantare le nostre spiagge in mezzo alla nebbia, mentre andiamo a lavorare con meno quindici gradi, quella non ce la toglie nessuno.