Partire è un po’ come morire

È quella sensazione di impotenza di fronte a situazioni apparentemente giganti e irrisolvibili. Quel sentore di aver toccato il fondo, un punto buio in cui si procede tentoni, poggiandosi su appigli di fortuna, per evitare di cadere ancora più in basso.

Quella che per alcuni è una scelta, per altri è necessità. A volte temporanea, a volte a lungo termine.
Gli ottimisti la vivono come un’esperienza curiosa, di crescita, di arricchimento. I disillusi come una pena da scontare, che peggio non potrebbe essere.

Che fare?

Non si sa bene come, né quando, ma alla fine qualcosa bisognerà pur fare, ed è così che spesso si decide di partire. Sbaglia chi crede che questa sia la strada più semplice. Su che base verrà poi fatta questa considerazione, sinceramente non lo so.

Sarà forse semplice svegliarsi ogni mattina chiedendosi quale sia il colore del cielo: grigio topo, grigio fumo di Londra, grigio fumo di Berlino, grigio perla, grigio ghiaccio, grigio da neve.

Sarà forse semplice relegare le relazioni più solide della vita alla schermata di uno smartphone, a un messaggio vocale, a una chiamata su Whatsapp.

Sarà forse semplice restare a galla in un contesto estraneo, dove la maggior parte della gente pensa che tu sia uno di troppo, un invasore, ma spesso non lo dice a voce alta perché fa brutto.
Ma partire, è davvero un po’ come morire? Mica tanto, sapete.

Partire è  come morire?

Perché quando accetti uno stage a 29 anni, un po’ ti deprimi, cominci a chiederti che cosa ti aspetterà, al quarto tirocinio; la quarta dannata volta in cui vieni trattato come uno studentello inesperto che ha ancora tutto da imparare.

Poi ti dicono che prenderai 1.100 euro netti al mese. E stai zitto per paura di rovinare la magia.

Partire è un po’ come morire, ma quando superi la terza fase di colloqui, e magari vieni anche assunto con un incremento del 30% sul precedente stipendio, è bello non dover mandare un messaggio di ringraziamento al tuo intercessore; è incredibile non doversi sentire debitori a vita; è sorprendente non dover leccare natiche in giro.

Partire è un po’ come morire, ma anche non poter fare mai un regalo ai tuoi genitori lo è. Non poter programmare una vacanza. Non poterti comprare anche gesummaria quando cominciano i saldi. Vorresti dilapidare tutto ciò che possiedi, ma sulla prepagata c’hai fissi sempre quei 100 euro che ti fanno salire la bestia dentro.

I cambiamenti

Partire è un po’ come morire, ma essere contattati su LinkedIn dai CEO delle aziende, e non dai soliti rimorchiatori virtuali, è tutta un’altra storia. C’è veramente gente che vuole offrirti un lavoro là fuori!

Partire è un po’ come morire, ma anche farsi elargire la paghetta settimanale da mamma e papà lo è. O sentirsi lo zimbello del quartiere perché hai deciso di studiare. Tu, lo scemo del villaggio di ultima generazione.

Partire non è come morire. Partire non è nemmeno la soluzione a tutti i mali del mondo, se è quello che vi stavate chiedendo. Non basta mettersi su un aereo di sola andata verso l’ignoto. Là dove tutto è più figo, tutto funziona meglio, si accendono mutui come se piovessero dal cielo, tutto ciò che desideri si materializza come per incanto.

Comunque provarci

Per alcuni sarà anche così, ma sempre meglio dare il giusto peso alle parole e alle situazioni.
Esistono piuttosto la pazienza, la voglia di perfezionarsi, il desiderio di riscatto, il cercare di fare sempre meglio e sempre di più. La forza di rialzarsi dopo uno scivolone sul ghiaccio, col sedere ancora indolenzito, e fregarsene se tua cugina ti manda foto dalla spiaggia a dicembre.

Come si fa a vivere senza poter godere ogni sera della bellezza del tramonto?
Personalmente non lo so; ma preferisco osservarlo tre volte all’anno, con la consapevolezza che, in fondo, qualcosa di buono la sto facendo anch’io.