TERRORISMO PSICOLOGICO

Siamo stati ad Atene per una settimana a gennaio, un piccolo stacco dall’inverno fasullo di Berlino e il tanto agognato ritorno in terra madre. Essendo un volo dell’alba ed essendo reduci da una notte di fuoco senza passione (avevo dimenticato i termosifoni a 5), non eravamo psicologicamente pronti ad affrontare il genere umano nella sua interezza. Fortuna ha voluto che quel giorno non ci fossero gite scolastiche o trasferte sportive: in compenso, un addio al celibato organizzato da 5 scemi, di cui uno sembrava affetto da stupidità più degli altri, dal momento che sentiva la necessità di urlare ogni stronzata gli venisse in mente. Già il solo fatto di possederne, di pensieri, sarebbe dovuto essere per lui motivo di grande giubilo. Ma anziché gioire per questa piccola conquista personale, ha allietato i presenti fino alla fine con esternazioni varie e, nonostante fossero in greco, abbiamo potuto percepirne tutti la profondità di ragionamento.

SOLIDARIETÀ GENITORIALE

Io e G. non viaggiamo vicini e sento la necessità di studiare nel minimo dettaglio i passeggeri: i bambini costituiscono spesso un pericolo quando si viaggia. Ci sono quelli che fanno la lotta con i fratelli usando il tuo sedile come cuscinetto, quegli altri che assillano i nonni sui disastri aerei sentiti in TV (mortacci), altri ancora che urlano di disperazione, al limite dell’attacco d’asma, seduti in braccio a un padre che non si sa se per assuefazione o stupidità, ignora le grida d’aiuto dei figli: non una carezza, una parolina di conforto, un cartone animato sul tablet o un bacio. Che genitore di merda.

A questo giro registro la presenza di una sola bambina insieme alla sua mamma. Il fatto che lei sia una punkettona da Rigaerstraße potrebbe farmi suonare il campanellino d’allarme: di solito questi sono i genitori che lasciano allo stato brado i figli, quelli che mangiano la sabbietta dei parchi e si arrampicano su giochi altissimi, io e G. spettatori sconcertati mentre giuriamo che un giorno i nostri li terremo ammanettati con il filo spinato.

La bimba che viaggia con noi sembra la pace fatta a misura di scricciolo, ma ho potuto fare la sua conoscenza solo durante il viaggio di ritorno, quando per non sentirla più piangere ho perso l’udito a forza di hard rock sparato nelle orecchie. Io ho provato a fare la mia parte di buona vicina, offrendo l’iPad nuovo di Apple Store con qualche puntata di Peppa Pig scaricata su Netflix, ma nulla. La madre non ha voluto, la bambina non si è mai calmata e nessuno ha potuto guardare nessuna puntata: non c’era volume che potesse contrastare con gli acuti lanciati da quella minuscola cassa toracica.

A OGNUNO IL SUO PARGOLO

Non giudico. Anche io sono stata madre di un piccolo esserino un tempo. Io e Arturo abbiamo vissuto mille e mille avventure e girato l’Italia in lungo e in largo: so cosa significa viaggiare con un minore a carico e noi avevamo pure l’aggravante della clandestinità. Un giorno dovevo spostarmi da Padova verso Milano e, non ho idea del perché, mi sono ritrovata a viaggiare su un Freccia Rossa, nonostante ai tempi mi cibassi esclusivamente di pasta al tonno. La gabbietta era nascosta dentro una busta tattica, solo il soffitto stava scoperto. Arturo non faceva versi di sorta, ma in compenso limava i denti nell’acciaio e faceva spesso delle corsette sulla sua ruota.

Di tanto in tanto controllavo che tutto laggiù fosse a posto e, all’ennesima ronda di controllo, non vedendolo tra i batuffoli di cotone, penso bene di infilare la mano nella gabbia, per accertarmi che stesse bene. Di tutta risposta quello stronzetto mi morde, mi morde infogato e non mi lascia la presa. Così, d’istinto, sollevo il dito con il topo ancora avvinghiato e lo scaravento sulla moquette del treno.

Dopo un piccolo shock iniziale da collisione al suolo, quel maledetto scappa tra i sedili di decine di incravattati, ignari del fatto che un criceto stesse facendo le maratone sotto ai loro piedi. L’inseguimento è durato un’infinità, sentivo già la borsa di studio fluire verso le casse di Trenitalia, il cuore nel palato, il pentimento per quei 5 euro di topo spesi male, ma più di tutte, il terrore di fare una figura di merda in un contesto troppo ingessato per due come noi. Fortunatamente sono riuscita ad acchiapparlo prima del disastro e il signorino non ha visto semi di girasole per molto, molto tempo.

MA TORNIAMO ALL’AEREO

In attesa di conoscere i vicini e, per evitare di svegliarmi di soprassalto ogni tre minuti e mezzo per colpa di Gratta e Vinci milionari, seleziono la playlist di volo per affrontare con serenità le tre ore successive. Comincio a entrare nel mood Attica, immaginando le passeggiate al sole, la vista dell’Acropoli e un mega piatto di moussaka con i suoi strati ciucciosi di melanzane, besciamella e carne macinata. Non mi basterà una confezione di pasticche per il lattosio per affrontare indenne questa vacanza. Giusto il tempo di farmi venire l’acquolina in bocca che si materializzano due tipi sulla trentina abbondante in cerca del proprio posto, esattamente i due liberi affianco a me, al che, vedendoli, mi passa di botto la fame e pure la fantasia: sembravano due scappati di casa, una di quelle circondariali. Uno alto e magro, l’altro basso e grosso, con due pale da forno al posto della mani. Mi guarda in cerca di assenso e io non oso contraddire il suo sguardo.

“Solo i due avanzi di galera potevano toccarmi” penso con gioia e letizia mentre abbozzo un sorriso sincero ai vicini. Guardo fuori in pista, il cielo si sta rischiarando sulla città e tanto mi basta per decidere che mai più viaggerò senza prenotare il posto, zecca che non sono altro. Torno con lo sguardo all’interno dell’aereo e colgo il Mignolo col Prof. tutti presi a guardare dei video sul telefono: uomini armati, gente bendata, fucili, mitra, prigionieri. Non proprio una visione consigliata nemmeno ai maggiorenni e, comunque, non prima di volare a 20.000 metri da terra. Non so cosa ci fosse di divertente, l’arabo ancora lo mastico poco, ma i due ridevano come se stessero guardando uno spettacolo di cabaret.

ATTIMI DI PAURA

Comincio a sentire una sensazione di restringimento nella zona dei glutei, mentre i due, non contenti di aver portato violenza e morte nella fila 22, cominciano a fare video chiamate con diversi ragazzi apparentemente seduti su altri aerei. Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. E cosa comincia a pensare una persona con una leggera predisposizione all’ansia? Attacco terroristico. Che fare? Una figura pessima o il rischio? La razionalità interviene fornendomi alcuni spunti di riflessione interessanti: in fondo se sono qui, devono essere per forza passati per il metal detector e sotto le mani inguantate degli operatori. Ma nessun apparecchio tecnologico o palpata mi distoglie dal pensare al peggio, così nel dubbio scrivo a G. per cercare conforto. Mi giro per attirare la sua attenzione: guarda il cellulare!

“Questi tipi affianco guardano video di gente armata, tipo ISIS, sono in contatto con altre persone che si trovano su altri voli…”.

“E non saranno cazzi loro?”.

“Mi buttano paranoia, hanno facce brutte!!”.

“Eh”.

“Eh??”.

“Dormi”.

Che odioso. Ok. Cerco di respirare, “calmati” mi dico. Sono due normalissime persone che stanno viaggiando esattamente come te. Hanno gusti discutibili in fatto di intrattenimento ma anche gli spettatori di Rete 4 ne hanno, eppure votano come gli altri.

Proprio in quel momento una vocina mi chiede: “Come si combatte l’ignoranza?”. E io rispondo: “Con la conoscenza”. Giuro che dopo questo dialogo interiore contatterò uno psicologo. Nel frattempo però, metto in atto un piano infallibile di socializzazione forzata. Mi sento un po’ Bear Grylls e un po’ MacGyver, cercando appigli di sopravvivenza nell’ambiente circostante. Trovato il pretesto perfetto! Sto combattendo con il bocchettone dell’aria condizionata da quando sono salita sull’aereo, non ne vuole sapere di chiudersi: è come avere un phon puntato in testa dentro a una sauna.

Nonostante vada contro i miei principi di donna emancipata, decido di interpretare il ruolo della principessa indifesa, visto che G. se ne sbatte e non ha nemmeno la scusante della gelosia per avvicinarsi, considerati i livelli di bellezza che mi trovo di fianco. Alzo il braccio, tento una manovra invano, sbuffo, “mmm l’aria non si chiude, Scheiße”; sbuffo ancora più forte, ma a differenza mia, i due non sono impiccioni e continuano a gingillarsi con scene di morte.

L’ARIA CONDIZIONATA

La mia manina timida si poggia allora sulla spalla dell’energumeno dalle mani alla Gianni Morandi: “Scusa, mi daresti una mano? Non riesco a chiudere l’aria condizionata e sto morendo di caldo”. Il ragazzo prova a sua volta, il bocchettone è difettoso. È talmente grosso che ho paura spacchi tutto, perciò gli dico di lasciar perdere. Ma lui niente, insiste e insiste, finché non ci riesce, da bravo cavaliere senza cavallo, che con quel peso lo avrebbe ammazzato al primo galoppo.

Quel bocchettone non si aprirà mai più, ma almeno io ho ripreso a respirare, in tutti i sensi. Ringrazio con il miglior sorriso di cui sono dotata dopo 5 mesi di apparecchio: qualcosa potrebbe sempre andare storto e magari, memori della mia spontaneità e socievolezza, potrebbero decidere di risparmiarmi. Nel frattempo interviene anche l’altro ragazzo a fare della sana conversazione, nell’ordine: di dove sei, ah italiana! io so dire una cosa: “piano piano vado” (wow); sono a Berlino da 16 anni, ogni volta è così quando devo volare, non mi piace, non mi ci abituerò mai.

Cioè, non ami volare e ti sollazzi con i gruppi armati? La gente è strana, aveva ragione la Martini.

Appurata la presunta buona fede dei due comincio a rilassarmi, non c’è nulla che mi terrorizzi di più in aereo di chi ti attacca bottoni infiniti mentre tu vorresti solo dormire. Così, “piano piano vado” anche io, poggio la testa e mi lascio trascinare in un coma che dura circa tre ore, il tempo di toccare terra greca, con dietro G. che sconcertato, ha continuato per tutto il tempo a chiedersi come avessi fatto a passare in tempo record dalla paura alle chiacchiere cordiali. Non so, sarà che a volte usare la testa allunga la vita, più di una telefonata.