Come siamo cresciuti

L’INFANZIA

Gli stabilimenti balneari non mi sono mai piaciuti. Fin da piccola ho sempre nutrito un particolare fastidio nei confronti di questi enormi spazi tolti alla libertà dei bagnanti.

Quando ero alle elementari andavo al mare sotto casa con mia zia. In famiglia abbiamo parecchie carenze, ma i nipoti, quelli no, di quelli ce n’è in abbondanza, e lei portava tutti con sé senza discriminazioni. La nostra era una piccola comunità: avevamo tutti i numeri per fondare un asilo privato, ma nonostante questo lei non si è mai scomposta più di tanto, e noi abbiamo fatto del nostro meglio per non farla incazzare, anche perché si rischiava l’espulsione dal gruppo, e nessuno voleva essere espulso dal gruppo.

La nostra banda era abbastanza eterogenea: c’era il neonato in passeggino, che ora mi guarda dall’alto ma per me ha sempre quindici anni, c’era mia sorella di sei anni più grande, che ora mi guarda dal basso e anche qui il tempo sembra non essere passato, mia cugina di sei anni più piccola, che avevo deciso di adottare come bambola personale, una cugina di un anno più grande con cui ho brevettato i giochi più geniali della storia, e un cuginetto via di mezzo che se non sapessi essere fatto della consistenza del pane, oggi mi incuterebbe parecchio timore.

Per mia zia eravamo tutti uguali, nonostante due della lista fossero sue creazioni: le regole valevano per tutti e nessuno osava disobbedire.

LA ROUTINE

La sveglia suonava presto la mattina, proprio nell’ora perfetta per dormire, quella della brezza fresca che ti permette di riposare dopo una nottata di fuoco. Ricordo vagamente che sentire quel suono mi evocava pensieri disdicevoli, ma una volta superato il trauma, in fondo ero felice di ricongiungermi all’elemento acquifero con cui ho avuto la fortuna di crescere.

Alle 08:30 eravamo già in spiaggia, non solo per occupare il posto più bello, ma anche perché il piccolino non poteva stare sotto al sole nelle ore più calde, e alle 11:30 dovevamo avviarci verso casa. Cugino se stai leggendo sappi che ci devi parecchie ore di sonno.

Nonostante arrivassimo a destinazione pochi minuti dopo l’alba, le prime file erano sempre, perennemente, inequivocabilmente, già occupate.
Zia ma i vecchi non dormono mai?“, chiedevamo perplessi.

La spiaggia libera rimasta, grazie ai concessionari, era una striscia grande quanto il nostro giardino, e siccome ai tempi non faceva cagare come oggi, c’era sempre un botto di gente. Tutti appiccicati come patelle allo scoglio, mentre ai nostri lati, i bagnanti di prima categoria, quelli che pagano per non poggiare il culo sulla sabbia, riposavano beati sulle sdraio allungando tutti gli arti senza necessariamente avere contatti fisici con altra umanità.

Un concetto inconcepibile nella mia testa di bambina selvaggia, che nella sabbia bisogna impanarsi fino al collo, sennò che gusto c’è, e al mare non bisogna pagare, perché è di tutti allo stesso modo, senza distinzioni e senza perimetri.
Già allora sapevo che per un approccio più turistico/commerciale alla spiaggia c’era l’Adriatico. Perché dunque sbattersi e venire in Sardegna?

(Poi ho capito).

Per noi bambini la sabbia era fondamentale e serviva tutto lo spazio possibile. Nostra zia aveva una regola ferrea: prima di fare il bagno bisognava aspettare tre ore dalla colazione e non un minuto di meno, che poteva essere quello fatale e lei non ci voleva sulla coscienza.

E in tre ore avevamo tutto il tempo di progettare villaggi con tanto di vulcani, passaggi segreti e design d’interni, bullizzavamo i più piccoli sotterrandoli fino alla testa, facevamo tornei di Tennis e lo scrub alle gambe con la sabbia del bagnasciuga, che si dimostrava più efficace per i nostri scopi di bellezza. Insomma, quelle file di ombrelloni proprio non c’azzecavano niente. Tutto spazio tolto alla creatività e alle pallonate a lungo raggio.

E certi sentimenti, una volta dentro, te li porti dietro per sempre.

L’ADOLESCENZA

Con l’arrivo dell’età problematica ho sacrificato la famiglia in nome dell’amicizia: piuttosto che andare al mare con un parente mi sarei fatta arrestare. Con la scoperta del mondo maschile la questione degli ombrelloni passò in secondo piano per un po’, ma sapevo che prima o poi sarebbe riemersa.

Un giorno io e la mia migliore amica decidiamo che delle concessioni non ce ne frega un accidente, e considerata la scarsità di posti liberi rimasti nella spiaggia proletaria, praticamente affacciati sul marciapiede di via Lido, piazziamo la nostra roba sul bagnasciuga, davanti a uno stabilimento. Volevamo solo farci un bagno e ristabilire una temperatura corporea inferiore ai 53 gradi. Ma niente da fare. Tempo due minuti e mezzo e arriva un tizio tutto trafelato per intimarci di lasciare il posto. Manco un “ciao“, manco un “scusate ma“…
Non si può stare qui, è proprietà privata!“.

Quelle paroline magiche insieme al tono autoritario poco confacente all’abbigliamento da bagnino da Cinepanettone, innescano in noi una miccia di bile limacciosa, tanto che all’ennesima minaccia di chiamare non so bene chi tra Guardia Costiera, proprietario dello stabilimento o presidente della Regione, il tizio si arrende e noi ci allontaniamo in preda alle ingiurie.

Chissà se questo episodio ha contribuito a determinare la carriera di avvocato della mia amica. Una cosa è certa: mi piacerebbe rivivere la scena oggi. Noi ci sposteremmo di sicuro, ma il cugino algherese di Mitch Buchannon abbasserebbe la cresta a suon di Codici. E pure la voce.

OGGI

Sono arrivata ad Alghero due settimane fa, e fin dal primo giorno, anzi dalla prima notte, ho notato che è in atto un complotto per destabilizzare il mio equilibrio psicofisico. Tutti i gabbiani del nord Sardegna si danno appuntamento puntuali ogni sera sopra il nostro terrazzo.

Sembrano soldati in guerra che urlano lamenti strazianti prima di lanciarsi all’attacco, stridono talmente forte che ogni tanto accendo la luce per assicurarmi che non ce li abbia sotto il letto. Secondo mia madre sono impegnati in una sorta di scuola guida: i gabbiani senior che insegnano ai baby gabbiani a volare. Per me sono solo dei maledetti esibizionisti. Se chiudessi la finestra smetterei di sentirli di sicuro, ma in cambio dovrei liquefarmi a miglior vita.

Dopo le difficoltà iniziali, la notte procede solitamente felice: sembra che gli organi prendano fuoco dall’interno, la pelle cucina sulle lenzuola per aver indugiato troppo a lungo nella stessa posizione. Mi sveglio a intervalli regolari in preda al disagio, e quando l’aria fresca comincia a circolare per casa, sopraggiunge finalmente lo stato comatoso.

Verso le sette e mezza, ormai consapevole che il peggio sia passato, cullata dalla brezza mattutina che solletica i piedi, arrivano i boys della nettezza urbana a schiantare trilioni di chili di vetro nei camion. Il vicino di casa, allora, visto che quelli del vetro sono appena passati, si sente legittimato a tirare fuori la sega elettrica per tagliare nessuno sa cosa; si conosce solo la durata dell’intervento: infinita.

MI ARRENDO

Mi alzo rintronata e con l’umore instabile. Mia madre non è a casa, è andata al Lido con il parentado, in uno degli stabilimenti balneari di cui sopra. Sono ancora reticente nei confronti degli stessi, ma raggiungo la famiglia perché ormai ho un livello di tolleranza maggiore rispetto all’adolescenza e sinceramente non mi viene in mente niente di meglio da fare a quest’ora del giorno.

Mi trascino verso la spiaggia con gli occhi ancora mezzo chiusi, individuo madre e zie, saluto e comincio a sistemarmi. Mi viene offerta una sdraio, accetto rassegnata. Vediamo cos’ha di così tanto speciale.
Mi corico sul lettino e trovo immediatamente una posizione comoda, senza spuntoni di sabbia da appiattire sotto l’asciugamano; reclino lo schienale in posizione da lettura, aggiusto il tettuccio per non far bollire le meningi, posiziono acqua e cellulare sulla mensolina dell’ombrellone, senza sclerare ogni secondo a frugare nello zaino.

Mi abbandono a un’estasi nuova, alla comodità senza precedenti, al relax senza dovermi necessariamente fracassare la schiena, senza cali di pressione ogni volta che mi tiro su, senza quella serie di “Ohi” “AhiAhhhh” ogni volta che mi siedo o mi sollevo.

Che dopo i trenta il declino fosse inesorabile l’avevo capito dagli argomenti tirati fuori alle cene con gli amici. Ma addirittura il lettino in spiaggia, all’ora delle galline, questo no. Davvero non me l’aspettavo. (Oddio, come siamo cresciuti).

Per fortuna ho trovato consolazione nei miei coetanei, anche loro reduci da nuove sperimentazioni in fatto di comfort balneare. Per loro anche la sedietta scrausa è ormai un concetto superato. Da ora in poi solo seggiole ergonomiche con braccioli, che nessuno c’ha più l’età per faticare mentre si riposa.

E gli stabilimenti? Quelli continuano a non piacermi particolarmente, ma credo ne riparleremo quando non avrò più le forze per portare nemmeno una bottiglietta d’acqua al mare. Visto e considerato il presente, meglio non fare troppo i fighi.