Il mestiere della Crocerossina

Sono stata assunta a tempo indeterminato come Crocerossina al mio trionfale ingresso alla scuola materna. Avevo 4 anni, ma già allora mi resi conto che quello, sarebbe stato uno di quegli impieghi sicuri, che non fanno mai mancare la pagnotta. Ero piccola ma avevo già capito un paio di cose su come gira il mondo.
Lui si chiamava Francesco. Era abbastanza bruttino e con la carnagione di un colore misto tra un’oliva verde acida, e una castagna umida riversa sul terreno da settimane in attesa di degna sepoltura. Non so cosa mi colpiva di lui, forse il suo essere dannatamente ribelle e scapestrato, in ogni caso è a lui che ho deciso di consacrare il mio primo bacio (a stampo!), mentre ce ne stavamo nascosti dentro l’armadietto dei cappottini. Mamma cosa hai pensato di me quando mi hai beccato? Ora certe cose ce le possiamo dire, dai.
Finito l’asilo io e il mio Francesco ci siamo persi di vista, cambiò quartiere e la nostra storia finì così, lasciandoci l’amaro in bocca.
Alle elementari ho conosciuto invece l’amore non corrisposto. Andrea era davvero bellino secondo me, un po’ bianchiccio anemico ma molto simpatico, solare e giocava pure bene a pallone. Non sapevo bene cosa fosse il calcio, nonostante mio padre mi ci imbottisse portandomi la domenica allo stadio, eppure visto che il mio principe tifava Milan, decisi di tifare Milan anche io. Questo mio innaturale interesse verso il pallone non valse i miei sforzi: a lui comunque non interessavo, e la cosa non mi dava pace. Solo dopo, verso la quinta, ho riflettuto sul fatto che comunque tra di noi non avrebbe potuto funzionare. Troppi centimetri di distacco: io una stanga anomala, lui, alto un palmo e una scoreggia, come si dice dalle mie parti.
Credo che sia per colpa di questo mio pensiero superbo e superficiale che gli dei si sono accaniti contro di me negli anni a seguire, facendomi innamorare puntualmente di ragazzi visibilmente più bassi di me.
Un minuto di silenzio per le scarpe coi tacchi, queste sconosciute.
Anche Andrea cambiò quartiere, mettendo fine al mio sogno d’amore durato anni, e questo vi fa capire quanto cagare faccia il mio quartiere, se ne vanno via tutti.
Il primo vero bacio è giunto infine all’età di 14 anni, con un ragazzo poco più grande di me, occhi azzurri e bel fisichetto, conosciuto per caso in spiaggia mentre giocavo a pallone con le mie amiche. Da lì nacque un’intensa love story fatta di letterine e telefonate infinite alle cabine telefoniche, sì perché il giovane abitava in un paese poco distante da noi, ma che all’epoca naturalmente mi sembrava oltreoceano. “Quando ci rivedremo?“. “Non lo so, ma resisti, ce la faremo prima o poi“. La distanza ci ha allontanati drasticamente, e neanche questa cotta, andò in porto come avevo sperato.
Gli anni dell’adolescenza scorrevano spensierati e felici, tra alti e bassi vari tipici dell’età. Stavo crescendo molto velocemente, e con me i miei fianchi. Avrei potuto soffocare qualcuno se per caso mi ci fossi seduta sopra. In tutto questo mutare e sviluppare, conoscere e sperimentare, c’era però qualcosa che non accennava a modificarsi, nonostante il passare del tempo e l’arrotondamento generale.
Là dove più sarebbe servito, ero piatta come una tavola. Non c’era l’ombra di tette, al loro posto due conchiglie attaccate allo scoglio, timide e silenziose, restie nell’uscire allo scoperto. Guardavo sotto la maglietta, ci parlavo, le incoraggiavo a fare il grande passo, ma si sentiva solo l’eco della mia voce.
Al che, ho dovuto elaborare la mia prima strategia di Marketing, così articolata:

  • Obiettivo: trovare un pivello;
  • Target: maschi di età compresa tra i 16 e massimo i 18 anni, che studino per la patente, o l’abbiano già presa, il cui padre affidi loro la macchina, sennò non ha senso; lavoratori o studenti non importa, purché simpatici e dotati di materia grigia;
  • Analisi della concorrenza: distanziarsi dalle coetanee magre e senza apparecchio per i denti puntando su qualità astratte come la solarità, l’arguzia intellettuale e il senso dell’ironia;
  • Canali di comunicazione: chat MSN, linguaggio non verbale, passaparola.

Insomma avevo pensato a tutto. Ora mancava solo la preda.
Non tardò ad arrivare.
Io e le mie amiche lo chiamavamo Copertone, per via del suo sorriso sporgente. L’avevo notato un sabato pomeriggio al centro storico prima che scattasse il coprifuoco. L’avevo pedinato in compagnia delle mie fidate compagne di avventure: era un cesso a pedali, ma probabilmente mi intrigava proprio per questo, per mia naturale malata predisposizione. Mi piaceva visto da dietro, mi piaceva di profilo, di fronte. Va beh ok, ma che si fa? Dovevo agire. Implorai mia madre di farmi connettere a Internet, a quell’epoca (aiuto che vecchia) mica si navigava così: bisognava srotolare dieci metri di filo per casa, staccare il telefono, collegare il computer, ma soprattutto, pagare la bolletta a fine mese. Alla fine vinsi io, entrai nel canale della chat della mia città, e mi misi alla ricerca di un tipo che, mi avevano rivelato, fosse amico del mio Copertone. Questo genio della privacy non solo mi rivelò il suo nome e cognome, ma mi diede anche il numero di telefono.
Che sbaglio.
Ho perseguitato questo povero Cristo per mesi con squilli e messaggi a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ero riuscita a destare la sua curiosità (e sticazzi), mi dava parecchio corda nonostante avesse mille buone ragioni per denunciarmi per stalking. Chissà che figa cosmica si aspettava di trovare.
Tone scoprì la dura realtà poco tempo dopo, un pomeriggio d’estate in spiaggia, quando decisi di segnare per sempre la fine di questo flirt virtuale. Mi feci coraggio, e con grande incredulità delle mie amiche, gli andai incontro mentre usciva dall’acqua. Mi presentai rivelandogli finalmente la mia identità, lui disse poche parole sconclusionate, restò abbastanza sconcertato dalla mia iniziativa, ma non me ne fregava niente. Dovevo tentarmela.
Dopo quella volta è caduto ogni tipo di contatto, e con esso anche la mia credibilità. Grazie a Copertone, però, ho potuto impratichirmi nella sacra arte del non ricevere risposte ai messaggi, che, al pari del silenzio, è un potentissimo mezzo di comunicazione, come ho imparato anni dopo all’università.
Ma ecco che, superata la maggiore età, arriva l’ultimo baluardo della Crocerossaggine acuta di cui sono affetta. Conosco un tipo davvero, ma davvero tanto sfigato. Intelligenza sopraffina nel suo campo, per carità, ma veramente al limite del volgare e della bruttura, interiore ed esteriore. Con questo soggetto i discorsi rasentavano sempre livelli di bassissima lega, tra un “se ti prendo mamma mia” ad altre oscenità che per la mia salute mentale ho deciso di rimuovere dal cervello. Anche con lui la situazione si era sviluppata per via epistolare (stavolta però elettronica, gloria agli dei), perché naturalmente viveva dall’altra parte d’Italia, e io sono sempre stata maestra del “complicarsi la vita con relazioni improbabili“.
Dopo mesi di conoscenza virtuale, prendo un aereo e lo raggiungo, non so bene perché, e non l’ho capito manco dopo. Sta di fatto che tutte le parole dette, le promesse fatte e le zozzerie conclamate, si sono risolte in una confessione di verginità inaspettata, che non sapevo se ridere o se piangere, e nel dubbio mi sono chiusa in bagno per raccontare quella scena imbarazzante alla mia amica, e quella stronza che non smetteva di singhiozzare dall’altra parte del ricevitore, anziché aiutarmi. Per fortuna che a quel tempo la Ryanair svendeva biglietti aerei come caramelle di sottomarca, non mi sarei mai perdonata una spesa superiore ai 5 euro per un accenno di trombata mal riuscita.