Weisheitszahn, già dente della sapienza

È venuta a trovarmi la fatina dei denti. Le ho detto che non mi serviva nulla. Ma ha voluto comunque che mi beccassi il terzo dente del giudizio in tutto il suo gonfiore.
La stronza.
Poteva aspettare che facessi almeno l’esame del B2, in modo da poter accennare un minimo di conversazione base per spiegare i dolori vari ai medici, e invece no.
Così, mi sono rimboccata le maniche del pigiama, e mi sono messa a sfogliare le pagine dell’Internet che parlavano di “dentisti italiani a Berlino“. La ricerca ha prodotto i suoi frutti, e con questa abile mossa ho evitato di incappare per l’ennesima volta nella sacra arte dell’invenzione di lingue straniere.
La dottoressa che ho scelto per il grande evento è di chiara origine italiana, con lei posso parlare del più e del meno senza dovermi necessariamente vergognare un verbo sì e l’altro pure. Le cose andavano alla grande tra di noi, bel feeling, bei discorsi sul tartaro, e tutti rigorosamente in italiano! Che lusso! Purtroppo però, mio malgrado e con enorme delusione, scopro che la suddetta dottoressa dei denti non è una chirurga. Insomma, il dente della sapienza, così si chiama in tedesco, non lo toglierà lei, ma una collega di un’altro studio che sta proprio qui vicino – non ti preoccupare che è bravissima-.
E va beh. Che devo fare…
L’unica nota dolente a parte la mascella? Parla solo crucco.
Fingo che non sia un problema, in fondo ci sarà ben poco da parlare durante l’operazione, e comunque posso sempre inscenare la parte della paziente timida (o cliente, come dice lei).
In totale farò tre incontri per togliere sto benedetto dente, un controllo preliminare, l’intervento vero e proprio e il controllo finale per levare i punti. Tutto chiaro. Comincio a imbottirmi di antibiotico, tre volte al giorno per sei giorni, mattoni spessi come Lego che per ingoiarli mi ci vorrebbe un braccio meccanico in gola. Dopo giorni di stenti e debolezza, l’infiammazione passa, e fisso l’appuntamento con la dentista numero 2.
Il giorno stabilito per il controllo pre-operatorio arriva, ci vado quasi spavalda “non perdiamo troppo tempo che la Zumba mi aspetta”.
Non so esattamente dove si è creato l’inghippo. Fatto sta che quando la dottoressa ha chiesto se fossi pronta per cominciare, si è concretizzata in me l’idea che, forse forse, nonostante l’italiano della prima dentista, non avessi capito una sega. Non c’era nessun controllo per me, ma l’intervento in carne e ossa. Non sapevo se ridere o se piangere, l’aria di sicurezza di un minuto prima si dilegua. Non si leva un dente senza essersi prima preparati psicologicamente.

ophelia

Ophelia, Londra

Ma alla fine ha vinto lei: la chirurga era lanciatissima nel suo intento, voleva levare fuori quel piccolo bastardo a tutti i costi, e un po’ anche io visto che ero là; così alla fine ho acconsentito, non tanto perché tolto il dente tolto il dolore, ma proprio per non intaccare la voglia di bisturi che si leggeva in faccia alla dottoressa. Non sapevo a che santo appellarmi, così, nel dubbio li ho coinvolti tutti. Uno a uno.
Mentre mi sdraio sul lettino, in preda agli spasmi del terrore, la giovane dentista mi guarda e mi sorride, conscia del fatto che me la stessi facendo addosso. E così, dal nulla, con una tenera goffaggine mi dice: “Gengiva gonfia“. Resto interdetta un momento: parla italiano? Grandissima, già mi sta simpatica. “Studio la tua lingua da due mesi“. Non posso fare altro che congratularmi, facendo a quel punto un paragone con il mio tedesco di merda, che lei invece esalta.
Simpatica due volte.
Nella gioia della scoperta, e nel suo dolcissimo tentativo di divertirmi dicendo frasi sconnesse in italiano, la bionda dentista si lascia andare in un gesto che non definirei tipicamente tedesco, né tanto meno nordico o comunque accettato da queste parti: mi tocca un braccio. Ma non toccare così, tipo sfioramento distratto. No no, mi avvolge letteralmente l’arto con forza, per infondermi coraggio, e ci riesce dannazione. Non contenta, la scena si ripete: al minimo tentennamento da parte mia, arriva subito una pacca sulla spalla, una stretta amica. Sono basita.
Di solito qui quando ci si abbraccia tra colleghi o conoscenti per scambiarsi gli auguri o salutarsi prima delle vacanze, ci si assicura sempre di lasciare una distanza minima di sicurezza, per non mostrare segni di cedimento o debolezza. Volemose bene ma con le dovute precauzioni. Figuriamoci con un estraneo!
Insomma questa dentista mi piace, mi fa sentire importante, si prende cura di me. Vista l’agitazione mi suggerisce di stringere qualcosa tra le mani, e io, dimentica dell’età che avanza, accetto, guardandola con lo stesso sguardo pietoso che rivolgevo a mia madre nei giorni di febbre, quando capivo che non sarei andata a scuola. E difatti, quello che mi dà da stringere è un tenero cagnolino di peluche, che ben si confà alla mia età cerebrale del momento. Ma nemmeno la vista del pupazzetto è servita per farmi ripigliare, niente, tremavo come se stessero per lapidarmi.
Devo avvisare il mio fidanzato. Cosa penserà se non torno a casa? Chi gli farà la cena? Ma non c’è il tempo materiale. Si comincia. Apro la bocca, sistemo l’arcata inferiore dei denti in una posizione comoda alla mia operante; la sua mano destra comincia a scattare in una danza velocissima, che neanche un ninja. Prende tre pinze, una alla volta, le avvicina al punto x, ci fa qualcosa e le rimette al loro posto. Il tutto in una manciata di secondi.
Non faccio in tempo a interrogarmi sulle mirabolanti azioni della mia beniamina, che lo vedo allontanarsi dal suo nido sicuro. Il dente è fuori, finito, ciao, tolto. E io me ne stavo lì, a bocca aperta, un po’ per la gengiva divisa in due, un po’ per via dello stupore: mai vista una roba del genere in tutta la mia carriera dentistica.
Che bravura! Ci torno sicuramente! Intanto però datemi del ferro da toccare va’.