Una sarda, due tedeschi e Ayutthaya

“Cosa ci fanno una sarda e due tedeschi ad Ayutthaya?”. Che sia l’incipit di una comune barzelletta? Di un indovinello dal dubbio gusto? O trattasi forse di un fatto realmente accaduto alla fine di un intenso viaggio in Thailandia? 

L’idea.

Impossibile visitare Bangkok senza programmare una giornata ad Ayutthaya, antica capitale del Regno del Siam e sede dell’omonimo parco archeologico oggi sito Unesco. Tante aspettative avevo riposto in questa gita fuori porta, perché il mare va bene, il relax pure, poi la scoperta della cucina, lo shopping sfrenato…

ma che viaggio può definirsi veramente tale senza un po’ di antichità, di godimento morboso alla vista di pietre vecchie come il mondo, di eccitazione all’idea che quegli stessi lastricati siano stati solcati da uomini e donne secoli prima di noi?

Ayutthaya 2

Per arrivare ad Ayutthaya, situata a circa 80 km da Bangkok, ci sono tantissime opzioni: sono talmente numerose le persone che vi proporranno di portarvici, anche mentre mangiate un gelato per strada e siete visibilmente poco interessati alla cosa, che le informazioni in vostro possesso potrebbero trasformarvi in agenzie turistiche locali sul colpo.

La soluzione più pigra di tutte è quella che, ovviamente, ho prediletto per la mia gitarella, e mi è stata proposta direttamente dalla signora che gestiva la Guest House in cui alloggiavamo (non sottovalutate il potere straordinario dei Thailandesi nell’organizzare trasporti apparentemente irrealizzabili, affidatevi sempre a loro nel bene, ma soprattutto nel male).

Il mio pacchetto da 500 Baht (ben 14 euro) era così composto:

  • Autista personale che ti viene a prendere alla reception
  • Pranzo e cena inclusi
  • Autista che ti scarrozza tra i templi principali (in tutto 5)
  • Guida personale (che non è l’autista)
  • Ingresso ai templi
  • Mini crociera sul fiume
  • Autista che ti riporta in albergo

Partenza per Ayutthaya.

La parte più drammatica di ogni escursione qui, credo sia uscire da Bangkok. Non meno di mezz’ora stipati in un traffico indecente, con i semafori lunghi quanto una gestazione, motorini e Tuc Tuc ovunque. Io siedo comodamente nel sedile davanti dell’auto, posso regolare l’aria condizionata, allungare le gambe, fare stretching e godere del panorama senza respirare particelle tossiche.

Dopo aver percorso 1 km e mezzo in un quarto d’ora, facciamo una piccola deviazione verso il Palazzo Reale, dove ad attenderci, c’è un’amorevole coppia di origine presumibilmente europea, ma non meglio definita, che farà l’escursione con noi. O meglio, con me. Che imbarazzo.

Stare così a stretto contatto con degli estranei che potrebbero rivelarsi dei piombi spaziali, mentre fino a due minuti prima facevo della sana conversazione con il Signor Don, l’autista, in un inglese assolutamente da interpretare, ma comunque sincera e amichevole.

Il disagio si risolve fortunatamente abbastanza presto, quando il nostro pilota, convinto di aver caricato in macchina altri due turisti socievoli, pone la domanda da un milione di dollari: “Da dove venite?“. La risposta non poteva essere che una: Germania.

Il discorso è morto naturalmente lì, e tanti saluti a lei, Signor Don, pensi a guidare.
Calorosi come un tuffo in un lago ghiacciato.

Mi faccio piccola piccola nel mio soffice sedile anteriore, striscio verso il basso nella speranza di rendermi invisibile. Non voglio parlare tedesco e giammai vorrei che mi venisse attaccato un pippone proprio adesso: potrei essere costretta a rivelare la mia residenza e non sono più l’abile bugiarda di un tempo.

Nessuno parla, e ne approfitto per fare un riposino innocuo, di circa tutta la durata del viaggio. Così, senza vergogna alcuna. Non so perché i mezzi di trasporto abbiano su di me questo effetto soporifero, ma sommata anche la compagnia trasgressiva, direi che io e la mia faccia di culo non avessimo in quel frangente nessuna valida alternativa.

L’arrivo ad Ayutthaya.

Parcheggiamo di fronte a un ristorante e lì ci viene incontro la nostra guida personale, il Signor Soney, che a differenza del Signor Don, l’inglese lo parla eccome.

Ci racconta di essere stato negli Stati Uniti per lavoro, prima di diventare una guida turistica, e nonostante l’accento marcatamente “asiatico” e qualche parola dal significato incerto, siamo riusciti a comunicare bene.

A lui è toccato fare gli onori di casa e le relative presentazioni, così salta fuori che io sono italiana, non vengo né da Roma né da Firenze né da Venezia, ma da un’isola non pervenuta che comunque non è la Sicilia (chissà se poi questa è davvero italiana, dicono le loro facce).

I ragazzi, sulla quarantina andante, sono tedeschi ma nessuno chiede loro di dove. (Fatevi una domanda). Dopo solo poche battute mi rendo conto che lei non parla inglese; ma non così, non spiccica proprio mezza parola.

E dai lui a tradurre ogni minchiata da un inglese già di suo abbastanza approssimativo, che ogni tanto ci siamo dovuti consultare per verificare che almeno qualcuno stesse capendo effettivamente i racconti del nostro accompagnatore.

Ayutthaya 3

Arriviamo al primo Tempio, il Wat Yai Chai Mongkhon, la parte più antica della città antica, cioè l’elisir della bellezza della magnificenza. Sotto un sole che non perdona, saliamo una scalinata abbastanza ripida circondati da immagini di Buddha di varie dimensioni. Tutto questo è così incredibile e affascinante, che persino io, con tutti i problemi di pressione e derivati, dimentico l’afa mortale che ci stava mandando in asfissia.

Ayutthaya

Una volta tornati ai piani bassi, noto che la mia compagna di avventure si è appena salvata da uno scivolone epico. Ridacchio da lontano e proseguo indifferente, come solo l’imitazione scadente di una donna di metropoli sa fare.

Mentre mi avvicino verso il resto della banda, resto leggermente indietro con lei, che, senza saper né leggere né scrivere, pensa bene di tentare una seconda caduta su quel pavimento liscio e dannatamente bollente. Mi guarda e fa per dire qualcosa, ma poi si ricorda che l’unico modo per comunicare con una straniera, è anche l’unica lingua del mondo che non conosce, perciò lascia perdere e continua a camminare.

Tedeschi.

L’imitazione burda di donna della metropoli fredda e distaccata, si scansa improvvisamente per far spazio alla meridionale isolana sorridente, che tutto farebbe pur di mettere a proprio agio qualcuno in difficoltà. Lo ammetto a sangue freddo e tutto d’un fiato: “io-abito-a-Berlino-se-vuoi-dire-qualcosa-puoi-parlare-tedesco-tranquilla-spero-di-non-pentirmene“.

La faccia si illumina, recupera quei sei/sette anni di vita persi durante gli auto-attentati di prima e cominciamo a parlare. La coppietta è incredula, è felice. Da quel momento in poi solo tedesco serrato e saettante, come se gli avessi rivelato di essere la fondatrice della Germania: sono pur sempre italiana ed emigrata, ma quelli niente.

Dai a un tedesco un dito, e si prenderà la tua anima. Chiacchiera chiacchiera, si scopre che i due non solo sono tedeschi, ma sono pure berlinesi (e non fatico a immaginare da quale parte del Muro siano nati) e abitano in un quartiere confinante al mio. Non ho scampo!

La giornata procede in realtà in maniera molto piacevole, allietata dalla vista delle rovine, e rovinata dal ricordo della Germania, che presto o tardi dovrò rivedere, insieme ai suoi abitanti. Ero talmente fuori dal mondo e priva di pensieri, che proprio qualche giorno prima avevo confidato a G. di aver rimosso dal cervello il fatto di vivere a Berlino, di essere costretta a parlare tedesco per sopravvivere e cose così.

I templi.

Solenni e silenziosi, tanto che anche la mente smette di rumoreggiare al loro cospetto. Camminare tra le antiche rovine di Ayutthaya è un’esperienza coinvolgente, nessun senso ne è escluso. Poco influisce sulla concentrazione la presenza di turisti da ogni parte del mondo e i rumori del traffico moderno che scorrazza ai lati del parco. Non è difficile estraniarsi in quei luoghi così sacri e affascinanti, tanto che una passeggiata sotto un sole cocente, accompagnata dal suono di uccelli sconosciuti, può rivelarsi rilassante in termini totalmente nuovi.

Wat Mahathat

Nonostante l’architettura nel suo complesso sia molto distante dagli standard occidentali e a un primo sguardo possa sembrare poco interessante, c’è sempre stato un momento cardine durante le visite ai templi: arriva d’improvviso, senza grosse presentazioni.

Non si sa bene cosa sia, ma c’è un richiamo che si alza tra le pietre ordinate e mute del tempio, fino a che lo sguardo non incrocia quello sereno del Buddha, provocando un misto di suggestione e deferenza. Lui è lì, immobile, ti fissa con quegli occhi leggermente socchiusi, non un muscolo in tensione, non un’incertezza. Invidio quella sua capacità di essere pienamente consapevole, di non lasciarsi influenzare da ciò che accade tutto intorno.

Il momento più toccante della giornata, è stato senza dubbio ritrovarsi davanti alla testa del Buddha incastonata tra le radici di un fico sacro al Wat Mahathat. È stato bello liberare la coscienza da giudizi estetici o di sorta, semplicemente godendo alla vista di uno spettacolo così unico e rassicurante, che non aveva bisogno di aggettivi particolari in quel momento.

Una delle leggende nate intorno a questo monumento, uno dei più antichi di Ayutthaya, narra che Buddha sia morto proprio sotto a quell’albero, e in quel momento, considerata la sacralità vibrante di cui l’area era permeata, avrei giurato che fosse andata esattamente così.

Buddha albero

Dunque, dicevamo: cosa ci fanno una sarda e due tedeschi ad Ayutthaya? Raccolgono ricordi dolci e assolati da condividere insieme davanti a un caffè nell’inverno berlinese.